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Quand’è stata l’ultima volta che hai avuto una “conversazione” con Siri o Alexa che si possa dire soddisfacente? Forse mai. Il motivo principale è che mentre questi assistenti o robot sono migliorati molto, la loro capacità di conversazione è rimasta piuttosto limitata. Google però questa settimana ha fatto un annuncio sul suo blog presentando Meena: un “agente conversazionale che può parlare di… qualsiasi cosa”, proprio come un essere umano. Certo i colossi della tecnologia come Google e Facebook ci hanno abituati e forse anche troppo, alla loro infinita serie di annunci sugli impressionanti progressi nel campo dell’AI. Tuttavia, la presentazione del nuovo chatbot di Google ha catturato l’attenzione di molti addetti al settore, ma cos’ha di speciale Meena?

Che differenza c’è tra Chatbot e AI?

Chat bot robot welcomes android robotic character. Creative design toys on yellow background.

Facciamo prima un passo indietro: innanzitutto un Chatbot non è necessariamente un AI, ma un software progettato per simulare una conversazione con un essere umano, che riceve quindi degli input dagli utenti ed in base a questi restituisce loro una risposta pre-impostata. Ad oggi possiamo trovare svariati tipi di Chatbot, solo su Facebook se ne contano quasi 800.000 per la customer care delle aziende private o come supporto alla pubblica amministrazione. Un chatbot basato su algoritmi di AI invece è in grado di imparare dagli input che riceve, migliorando la propria “conoscenza” e garantendo un miglioramento continuo delle risposte.

Come sono i Chatbot attualmente nel mercato?

La maggior parte delle Big-Tech possiede una propria versione di chatbot: pensiamo per esempio a Siri di Apple, Google Assistant di Google, Alexa di Amazon o Cortana di Microsoft, ma quali sono le caratteristiche che accomunano tutti i chatbot attualmente in commercio?

  • Dominio chiuso / Basato su regole: la maggior parte dei chatbot è di dominio chiuso, il che significa che funzionano solo all’interno di un circuito specifico.
  • Non conversazionali: le interazioni dovrebbero apparire simili a quelle umane. Con gli attuali sistemi in circolazione non è affatto così.
  • Non multigiro: la maggior parte dei chatbot non riesce a prendere in considerazione le interazioni multiple (in cui l’utente e il chatbot interagiscono tra loro, a turno). Questo ci porta nuovamente ad un’esperienza poco umana.

Google Meena è diverso

Arriviamo quindi a Meena: chatbot multigiro, a dominio aperto e alimentato da una rete neurale end-to-end, in grado di considerare più di 2,6 miliardi di parametri. Google afferma che può chattare con le persone meglio di qualsiasi generatore di intelligenza artificiale. Il team ha infatti “addestrato” il modello con 40 miliardi di parole: 341 GB di dati di testo, comprese le conversazioni sui social media, utilizzando il modello Seq2Seq, una variante di Transformer di Google, la rete neurale che confronta tra loro le parole in un paragrafo per capirne la correlazione. Meena possiede un blocco encoder ET e 13 blocchi decoder ET: mentre il prima aiuta a comprendere il contesto della conversazione, i decodificatori lo aiutano a formulare una risposta.

Sensibleness: la nuova metrica di conversazione

Il team di ricercatori ha anche ideato una nuova metrica per misurare quanto sia sensibile e specifica una conversazione o una risposta: la Sensibleness and Specificity Average (SSA). Un esempio? se dici “Mi piace il tennis” un chatbot probabilmente ti risponderà restando sul vago, qualcosa come: “è fantastico”, una risposta sicuramente sensata ma di certo non è specifica. Sono molti i chatbot che si basano su trucchi come questo per nascondere il fatto che non riconoscono ciò di cui si sta parlando. Meena invece potrebbe rispondere con qualcosa del tipo: “anch’io l’adoro, non ne ho mai abbastanza di Roger Federer”, una risposta decisamente più specifica. 

Google ha utilizzato i crowdworker per generare conversazioni di esempio e ottenere un punteggio in circa 100 conversazioni. Meena ha ottenuto un punteggio SSA del 79%, rispetto al 56% di Mitsuku, un chatbot all’avanguardia che ha vinto il premio Loebner negli ultimi quattro anni. Quindi, se perfino i partner di conversazione umana hanno segnato solo l’86% in questo nuovo test, è intuibile l’impatto innovativo che potrebbe avere Google Meena. 

Quando potremo parlare con Meena?

Non prestissimo. Google ha affermato che non rilascerà una demo pubblica fino a quando non avrà verificato la sicurezza del modello sia in termini di privacy, sia in termini di “imparzialità” per evitare problemi come quelli incorsi da Microsoft, quando nel 2016 ha rilasciato il suo chatbot Tay su Twitter e questo ha iniziato a rilasciare invettive razziste e misogine in poche ore.

Perché Meena e i Chatbot sono così importanti?

I chatbot sono vantaggiosi per il supporto clienti: da un lato questi vincono perché ottengono supporto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per le loro semplici domande, dall’altro le aziende vincono perché possono risparmiare sui costi del personale e consentire al personale di supporto di risolvere i problemi più difficili che i clienti devono affrontare. Qualche dato interessante:

  • il 69% dei consumatori secondo Salesforce preferisce utilizzare i chatbot per la velocità con cui può comunicare con un marchio. 
  • I chatbot possono aiutare le aziende a risparmiare fino al 30% sui costi dell’assistenza clienti (IBM
  • Un sondaggio HubSpot ha trovato che il 47% dei consumatori sarebbe aperta a fare un acquisto da un chatbot (HubSpot)
  • I negozi di e-commerce che adottano Facebook Messenger insieme a un chatbot di abbandono del carrello hanno iniziato a incrementare le entrate del 7-25% (Chatbots Magazine)
  • Juniper Research stima che entro il 2023 i chatbot rappresenteranno $ 112 miliardi nelle vendite al dettaglio (Mobile Marketer)

I chatbot sono ancora uno spazio emergente in cui le grandi aziende come Google e Facebook, per citarne alcune, stanno concentrando parte dei loro investimenti. L’approccio e i risultati di Google per Meena sono entusiasmanti e mentre rimane ancora molto lavoro da fare per poter costruire chatbot validi per gli esseri umani in termini di competenza e versatilità, Meena sembra essere un passo nella giusta direzione.

Google blocca i cookies di terze parti

La scorsa settimana Google ha annunciato un enorme cambiamento nel modo in cui gestisce i cookie, quei tracker digitali  che vengono salvati automaticamente sul browser da un sito internet durante una visita, utili sia per migliorare l’esperienza dell’utente durante la navigazione in Rete, ma anche agli inserzionisti per pubblicare annunci mirati. Il colosso della ricerca, ha quindi annunciato che smetterà di supportare i cookie di terze parti nel suo onnipresente browser Chrome, scommettendo che il suo Sandbox sulla privacy (l’API per la tutela della privacy presentata per la prima volta ad agosto) nei prossimi due anni svilupperà funzionalità che andranno a sostituire i cookie di terze parti. La notizia arriva direttamente da Mountain View con Justin Schuh, direttore di Chrome Engineering, che nel post della scorsa settimana scrive:

“Gli utenti richiedono una maggiore privacy, tra cui trasparenza, scelta e controllo sul modo in cui i loro dati vengono utilizzati, ed è chiaro che l’ecosistema Web deve evolversi per soddisfare queste crescenti esigenze”,.

I motivi della scelta di Google

Google sta sicuramente compiendo un passo significativo rispetto al data mining sfrenato degli ultimi anni, certo è che dopo essere stato il pioniere e aver protetto un’apparente invasione della privacy, è lecito chiedersi se potrà davvero vendere il proprio browser ai consumatori come servizio che privilegia la privacy. Google quantomeno ci proverà e questo per due principali motivi: la crescente pressione normativa e la richiesta stessa da parte degli utenti di maggiore privacy, percepita sempre più urgente, tanto da aver spinto gli altri produttori di browser ad abbracciare la privacy come un vantaggio competitivo. Apple Inc. ha aggiunto restrizioni sui cookie a Safari diversi anni fa. Microsoft Corp. ha creato una serie di meccanismi di prevenzione del monitoraggio nel suo browser Edge, di cui in questi giorni è stata lanciata la nuova versione e Mozilla Corp. ha reso gli strumenti per la privacy a pagamento un punto di forza del suo servizio Firefox.

Cos’è la Privacy Sandbox e come funziona?

In concreto Google vuole inglobare la gestione dei cookie all’interno di un Privacy Sandbox, ovvero una nuova area all’interno della quale ogni utente avrà la possibilità di gestire i propri dati personali online. Questo si tradurrebbe con la fine dei cookie di terze parti, che non verranno più memorizzati e rimarranno nel device senza essere condivisi. L’iniziativa di Google Privacy Sandbox, partirà dal mese di febbraio 2020, iniziando a richiedere ai cookie di terze parti il rispetto di specifiche caratteristiche legate alla privacy degli utenti, proseguendo poi con la limitazione nell’uso della stringa “user agent”, contentente delle informazioni relative ai client che si connettono a un sito Web. Verrà invece utilizzato un meccanismo denominato Client Hints, per cui i portali potranno comunque accedere ad alcuni dettagli di base, senza però ricavare tutte le informazioni di tracciamento attuali, limitando al minimo indispensabile le informazioni condivise. Da un lato quindi Google contrasterà le tecniche di fingerprinting atte a tracciare le attività online per ricostruire nel modo più preciso possibile interessi e abitudini degli utenti, dall’altro permetterà agli utenti stessi di avere maggiori possibilità per gestire i dati che vengono condivisi online.

Ma quali sono le conseguenze per gli inserzionisti?

La mossa di Google appare però azzardata e rischia di compromettere le relazioni con inserzionisti ed editori, un vero tsunami per il mondo del marketing, dove la profilazione attraverso i cookie è spesso uno strumento essenziale per le strategie online. Google è però ben consapevole di non poter correre questo rischio e promette che l’iniziativa ridurrà il monitoraggio improprio, pur continuando a consentire il targeting degli annunci. In un futuro senza cookies, Google vorrebbe infatti che il targeting degli annunci, la misurazione e la prevenzione delle frodi avvengano secondo gli standard stabiliti dal suo Sandbox sulla privacy, in base al quale i cookie saranno sostituiti da cinque interfacce di programmazione dell’applicazione. Gli inserzionisti useranno ciascuna API per ricevere dati aggregati su problemi come la conversione (il rendimento degli annunci) e l’attribuzione (quale entità viene accreditata, ad esempio, per un acquisto). Privacy Sandbox rappresenta quindi un percorso alternativo che Google sta fornendo all’industria pubblicitaria, basandosi su segnali anonimi (che non sono cookie) all’interno del browser Chrome di una persona, per trarre profitto dalle abitudini di navigazione dell’utente.

“Le due aree in cui anticiperemo il maggior cambiamento sono l’aumento del valore dei dati proprietari sia per gli inserzionisti che per gli editori, nonché un aumento della scarsità di dati sul pubblico di terzi provenienti da broker e partner di dati che non hanno una relazione diretta con gli utenti ” ha affermato Paul Cuckoo, responsabile dell’analisi mondiale di PHD Media.

Cosa sappiamo delle API di Google

L’iniziativa Privacy Sandbox è ancora agli inizi, quindi mentre Google ha proposto molte funzionalità, non esiste una piattaforma o un codice reale che gli esperti di marketing possono valutare correttamente. Ecco quindi cosa sappiamo finora di ciascuna API: 

  • La Trust API è l’alternativa di Google a CAPTCHA: chiederà solo una volta ad un utente di Chrome di compilare un programma simile a CAPTCHA e fare poi affidamento su “trust token” anonimi per dimostrare in futuro che l’utente è un essere umano reale.
  • La Privacy budget API limiterà invece la quantità di dati che i siti Web possono ricavare dalle API di Google assegnando a ciascuno un “budget”.
  • L’ API di Google per la misurazione delle conversioni alternativa ai cookie informerà un inserzionista se un utente ha visualizzato il suo annuncio e alla fine ha acquistato il prodotto o se è atterrato sulla pagina promossa.
  • Il Federated Learning farà affidamento sul machine learning per studiare le abitudini di navigazione di gruppi di utenti simili.
  • Infine PIGIN (private interest groups, including noise), consentirà a ciascun browser Chrome di tenere traccia di una serie di gruppi di interessi a cui si pensa appartenga l’utente.

Gli obiettivi di Google 

Google ha affermato che è aperto a collaborare con entrambe le parti, ovvero sia con inserzionisti e sia con utenti di Chrome per assicurarsi che il suo Sandbox sulla privacy vada a vantaggio di tutte le parti interessate del settore e non solo dei suoi profitti. La società sta cercando feedback sui dubbi circa le tipologie di informazioni raccolte sugli utenti e approfondimenti sul modo migliore per consentire agli stessi di vedere quali dati vengono raccolti su di loro, nonché un feedback generale su ciascuna delle API proposte. L’obiettivo finale di questo intero processo è trasformare le API in standard web aperti che teoricamente potrebbero essere adottati dai fornitori di altri browser come Safari e Mozilla. Finora, l’organizzazione di standard World Wide Web Consortium è stata coinvolta nello sviluppo di Privacy Sandbox, portando alcuni operatori del settore a credere che potrebbe aprire la strada affinché le cinque API diventino coerenti in tutti i browser.

Non è ancora certo ciò che accadrà precisamente in futuro, per il momento sembra configurarsi un web in cui i grandi player cominciano per primi a mettere dei paletti per quanto riguarda la profilazione degli utenti, c’è da chiedersi però quanto queste mosse siano eticamente o strategicamente motivate.